Selezionare un quarterback al primo round del draft è sempre la soluzione?
Spoiler: la risposta potrebbe non piacervi
Lasciatemi esordire scusandomi: mi dispiace. Seriamente.
Per un numero considerevole di tifosi quello che stiamo vivendo è il periodo più euforico dell’anno, il periodo dell’anno della speranza e dell’ottimismo, quell’insieme di giorni in cui uno più uno fa sempre due: una scelta alta al primo round del draft è sinonimo di franchise quarterback che, a sua volta, è sinonimo di redenzione. E anche di riscatto. A volte addirittura di Super Bowl.
Dopo anni di studio e analisi, decine - se non centinaia - di ore di colloqui conoscitivi, di cene e di incontri con famiglia, allenatori e addirittura insegnanti, un general manager non può che essere sicuro del giudizio da lui formulato su chicchessia giocatore.
Ci investono così tanto tempo e denaro da convincersi di essere riusciti a sradicare il margine d’errore dalla creatura più imperfetta del pianeta, l’essere umano. O almeno, lo sperano.
Il punto è proprio questo: lo sperano. Lo sperano perché nonostante le migliaia di ore di lavoro dei migliori cervelli del mondo per quanto riguarda analisi tattica e caratteriale di ragazzini - perché si sta pur sempre parlando di ventenni -, il draft continua a dimostrarci anno dopo anno di essere tutto fuorché una scienza esatta.
Soprattutto con i quarterback.
C’è molta fibrillazione per i quarterback di questa classe.
C’è il fenomeno generazionale - oramai immancabile in ogni draft, pure il termine “generazionale” abbiamo saputo rovinare - Caleb Williams, ci sono Drake Maye e Jayden Daniels, il numero due e tre o tre e due, poi c’è il leader dei campioni NCAA in carica J.J. McCarthy, gli intriganti Michael Penix Jr. e Bo Nix e le wild card come Spencer Rattler e Joe Milton.
Tutti molto diversi fra di loro, tutti legati dal filo rosso della speranza, prerogativa della posizione: in nessun atleta al mondo sono riposte più speranze di quelle addossate a un povero quarterback.
Quando arriverà il momento di analizzare il draft sfodererò a ogni piè sospinto frasi come «squadra X ha trovato il proprio quarterback del futuro» o «ora che squadra Y ha un quarterback…» consapevole di mentirvi.
Pochissime squadre usciranno dalla tre giorni di Detroit con il proprio franchise quarterback. Questa dichiarazione non è l’ennesima istanza di me-essere-me, non è una manifestazione gratuita di cinismo ma la cruda e semplice realtà dei fatti.
Mi duole dirlo, ma cari tifosi di Bears, Commanders, Patriots, immagino pure Vikings, Broncos e Raiders - e non mi stupirebbero nemmeno Giants e Seahawks -, ci sono nette possibilità che la vostra squadra del cuore stia per fare un buco nell’acqua.
Ho smesso di lavorare - a proposito, immagino di dover scrivere qualcosa come “cerco lavoro” - e ho finalmente molto tempo libero a disposizione, quindi ho pensato di condividere la mia ritrovata serenità con voi facendo del mio meglio per deprimervi.
Ho preso in esame ogni quarterback selezionato al primo round fra 2010 e 2020 per provare a rispondere alla più semplice ma al contempo articolata domanda che attanaglia la nostra comunità: selezionare un quarterback al primo round del draft è sempre la soluzione?
Per la sorpresa di nessuno, la risposta è negativa. No, neanche per sogno.
Il campione preso in considerazione è palesemente imperfetto, dati come la durata media della carriera di un QB selezionato fra le prime 32 chiamate sono sfalsati dalla contiguità temporale, basti per esempio pensare al draft del 2020 che ci ha regalato i vari Burrow, Tagovailoa, Herbert e Love, gente che non dovrebbe avere problemi a tenere stretto il proprio lavoro in NFL per - almeno - i prossimi dieci anni.
Insomma, gente che alzerebbe una media che come vedremo è piuttosto bassa.
Media che poi sarebbe prontamente abbassata dalle classi del 2021 e del 2022 che, Trevor Lawrence - e forse Justin Fields - a parte, saranno digerite dalla lega senza troppi complimenti, un po’ come un piatto di riso bianco per un culturista
Tuttavia ho optato per questo intervallo temporale per una ragione a mio avviso tanto semplice quanto inattaccabile: i quarterback del secondo decennio del terzo millennio li ho vissuti tutti sulla mia pelle. E.J. Manuel l’ho visto operare coi miei occhi, non devo accontentarmi del sentito dire che vi proporrei parlandovi di un JaMarcus Russell qualsiasi. I cinque minuti di Paxton Lynch fra i professionisti li ricordo nitidamente, di Brady Quinn invece ricordo solo gli ultimi giorni, quelli da backup.
Fra 2010 e 2020 sono stati selezionati al primo round 34 quarterback, ma in questo articolo ne prenderò in considerazione 33 in quanto non ho reputato opportuno includere nella mia ‘ricerca’ - troppo pretenzioso chiamarla così? - Dwayne Haskins che, in tutta sincerità, davanti alla morte che vada a quel paese pure il football americano.
Fossi partito dal 2006 come avevo progettato di fare dubito che le medie ne avrebbero risentito in modo significativo. Infatti, il 2006 è solo parzialmente salvato da Jay Cutler, il 2007 è diventato sinonimo di tragedia grazie a JaMarcus Russell e Brady Quinn; il 2008 invece si è riscattato regalandoci Joe Flacco e Matt Ryan mentre nel 2009 dubito che il picaro Matthew Stafford sia riuscito a compensare alle delusioni che rispondono al nome di Josh Freeman e Mark Sanchez.
Quattro quarterback titolari in quattro anni - sinonimo di “primi round” - su nove selezionati… che poi non si sta sicuramente parlando dei Drew Brees e Tom Brady di turno visto che la giura non è mai riuscita a emettere un verdetto unanime su Joe Flacco e Jay Cutler. E, prima del Super Bowl, quando parlavamo di Matthew Stafford non riuscivamo a non tirare in ballo l’aggettivo “simpatico”, un po’ come quando proviamo a difendere dalle perplessità del mondo esterno il nostro amico con le skill sociali di una lucertola in autostrada.
Trentatré quarterback, quindi.
Parto subito fornendovi la statistica più interessante in assoluto, anche se imperfetta: di questi 33 quarterback solamente 16 hanno ricevuto il rinnovo contrattuale con la stessa squadra che li ha selezionati al draft. Fra i 16 rinnovi troviamo anche quelli di Tua Tagovailoa - arriverà nei prossimi mesi - e di Jordan Love che, tecnicamente, prima dell’inizio della scorsa stagione ha firmato un rinnovo annuale dal retrogusto di fifth year option. Come vi dicevo, questa è una statistica imperfetta in quanto coinvolge gente come Carson Wentz, Daniel Jones, Ryan Tannehill pre-resurrezione ai Titans e veri e propri bust come Blake Bortles, quarterback che hanno costretto il proprio front office a pentirsi delle decisioni prese.
Inoltre, anche se per motivi diversi, Jared Goff e Deshaun Watson sono entrambi stati al centro di trade.
Ho deciso di tenere in considerazione questo dato poiché il significato sottinteso della parola “franchise” in franchise quarterback è “continuità”: un franchise quarterback è tale quando diventa la risposta per un paio di lustri alla domanda che determinerà inevitabilmente il destino di un front office.
Dunque, circa la metà dei quarterback selezionati al primo round degli undici draft che hanno avuto luogo fra 2010 e 2020 ha rinnovato almeno una volta con la squadra che li ha portati in NFL. Poi, come appena visto, ci sono stati rinnovi più o meno azzeccati e/o produttivi.
Il dato che più mi ha fatto sorridere è però compendiato dal numero 3.96, ossia la media di anni giocati da titolare da questi 33 quarterback presi in esame.
La comicità di questo numero la si intercetta nel fatto che la durata prestabilita del contratto di un giocatore selezionato al draft sia proprio di quattro anni. Una volta esauritosi il contratto di un quarterback su cui una squadra ha investito una preziosa scelta al primo round, suddetta squadra si trova costretta a procurarsene immediatamente uno nuovo. Non molto franchise come cosa.
Fra un lustro questo numero potrebbe essere gonfiato dalla longevità dei vari Patrick Mahomes, Lamar Jackson, Josh Allen, Joe Burrow, Justin Herbert, Tua Tagovailoa e Jordan Love, ma come evidenziato in precedenza questa statistica tende a bilanciarsi da sola poiché dubito che Mac Jones, Zach Wilson, Trey Lance e Kenny Pickett abbiano ancora tante stagioni da titolari nelle proprie faretre.
Per quello che può contare il Pro Bowl nel 2024, mi sento in dovere di farvi presente che più della metà di questo manipolo di quarterback - 18 per la precisione - abbiano partecipato almeno a un Pro Bowl. Sì, quell’evento a cui poco più di un anno fa ha presenziato Tyler Huntley e, lo scorso gennaio, Gardner Minshew. Conta quello che conta, ma se non altro ci suggerisce che almeno per una stagione chicchessia giocatore abbia reso al di sopra della media nella posizione.
Dimenticatevi per un attimo di Tyler Huntley, vi prego.
Reputo invece molto interessante farvi presente che solamente uno di questi quarterback sia riuscito a trascinare la propria squadra al Lombardi: sapete benissimo di chi stia parlando. Quello la cui moglie ha recentemente stretto amicizia con Taylor Swift. Se tiriamo indietro il limite sinistro fino al 2006, il numero sale a tre grazie a Flacco e Stafford: tre quarterback in quasi vent’anni è un dato ovviamente insoddisfacente ma che possiamo imputare a Tom Brady che in quegli anni non ne voleva proprio sapere di andare in vacanza con la famiglia a fine gennaio.
E a Mahomes.
Al primo round troviamo tutto fuorché garanzie.
Troviamo talenti generazionali come Andrew Luck, Patrick Mahomes, Josh Allen, Lamar Jackson e Joe Burrow.
Troviamo bust senza se e senza ma come Blaine Gabbert, Christian Ponder, Jake Locker ed E.J. Manuel. Troviamo pure bust generazionali come Johnny Manziel, Paxton Lynch e Josh Rosen. Troviamo addirittura Tim Tebow!
Troviamo ragazzi che hanno avuto i loro momenti ma la cui vita da titolari, per un motivo o per l’altro, è durata meno di quanto potessimo aspettarci come Teddy Bridgewater, Carson Wentz, Marcus Mariota, Jameis Winston e Sam Bradford.
Non scopro nulla di rivoluzionario affermando che il draft non sia - e mai sarà - una scienza esatta, soprattutto con i quarterback
Ogni fallimento, però, è diverso. Sam Bradford e RGIII sono stati sabotati da gravissimi infortuni, mentre Johnny Manziel è stato sabotato da sé stesso.
Giocatori come Paxton Lynch e Brandon Weeden ci restituiscono la disperazione che può spingere un front office a investire una scelta al primo round del draft basandosi esclusivamente sul potenziale atletico di un prospetto.
Resto convinto che la variante più determinante resti il contesto, va da sé che una situazione societaria precaria o un coaching staff incompetente possano far deragliare la carriera di chiunque, indipendentemente dal talento.
Non è un caso che in un lustro i New York Jets siano riusciti a bruciare consecutivamente Sam Darnold e Zach Wilson. Per i Jets questa è ordinaria amministrazione.
Stando ai mock degli esperti, fra una decina di giorni al primo round del draft potrebbero essere selezionati dai quattro ai cinque quarterback - sei per i più estremisti - e, riprendendo in mano i numeri appena sciorinati, la metà di loro fallirà miseramente costringendo la squadra che li ha tolti dal big board a una desolante mediocrità che, a sua volta, li costringerà a portare avanti la caccia al quarterback - esercizio che come abbiamo avuto modo di vedere in alcuni casi può devastare sia il presente che il futuro di una franchigia.
Il successo in NFL è determinato da una miriade di variabili più o meno misurabili, ma oltre alla salute quella più imprescindibile resta, a mio avviso, il contesto: tanti quarterback vengono mandati allo sbaraglio in attacchi che nemmeno il miglior Tom Brady sarebbe in grado di salvare dall’incompetenza. Spesso questi giovani di buone speranze sono costretti a indirizzare il pallone a gente patologicamente incapace di creare separazione o, peggio, a navigare in una tasca più affollata del lago di Garda a ferragosto a causa dell’inettitudine di una linea d’attacco che non sa garantir loro una protezione adeguata.
Ci si dimentica troppo spesso che non sia affatto scontato che un ragazzo di vent’anni recuperi automaticamente l’autostima dopo una stagione da tre vittorie in cui ha lanciato più intercetti che touchdown. Di questi tempi va molto di moda la formazione sul posto di lavoro, ma quello del quarterback non è un lavoro come un altro e come abbiamo imparato dalla debacle dei Denver Broncos l’espressione «trovarsi a un quarterback di distanza da…» non ha a nulla a che fare con il vero football americano, è un qualcosa che compete solamente a chi come me ha deciso di buttare via tempo scrivendo dello sport più imprevedibile che esista.
Nulla costringe una squadra a schierare titolare da settembre un quarterback rookie. Ci sono probabilità molto alte che se il ragazzo è stato selezionato nella top five quella squadra si trovi a ben più di un quarterback di distanza dal Super Bowl.
Mi sarebbe piaciuto concludere con un drammatico augurio di buon draft ai presumibilmente rattristati tifosi delle squadre che giovedì prossimo andranno ad aggiungere al roster “quello giusto”, ma manca ancora troppo tempo.
Ciò che spero di avervi fatto capire è che quella del draft altro non sia che una lunga e spettacolare lotteria, soprattutto con i quarterback.
Sarebbe interessante poter quantificare l'importanza di un periodo di apprendistato dietro al QB titolare. Per esempio: Mahomes è certamente un fenomeno generazionale (nel suo caso nessun abuso linguistico), ma quanto gli sarà servito l'anno passato a osservare Smith? Stessa cosa per Rodgers e, si spera per lui, Love
Un ottimo articolo Mattia fra i migliori per chiarire da cosa dipenda la riuscita di una squadra nel Football, 1000 + 1000 fattori e vsriabili fta i quali il QB rappresenta un elevatore di potenza [matematicamente parlando] Conclusione .......calcoliamo bene le probabilità ognuno con la propria metrica di giudizio ^_^ Buon Nuovo Lavoro Mattia