La fortuna di aver vissuto Aaron Donald "dal vivo"
Un tributo a uno dei più grandi di sempre - ma per davvero, non come si usa dire dopo ogni ritiro illustre
Un tweet a ciel sereno squarcia un atipicamente depresso cielo del venerdì pomeriggio: dopo dieci anni di dominio, terrore e distruzione, Aaron Donald si è ritirato dalla NFL.
Wow. Per uno che vorrebbe vivere scrivendo metabolizzare una notizia del genere con un banalissimo “wow” è alquanto ridicolo, ma con un paio di volteggi dialettici credo di poter dare un senso a queste tre lettere.
Per dieci anni “wow” è spesso stata l’unica parola in grado di compendiare i nostri sentimenti per Aaron Donald, un giocatore al quale la lingua italiana non è in grado di rendere giustizia. Possiamo sperticarci con tutti i superlativi che vogliamo e staremmo comunque parlando per eufemismi.
“Wow”, per anni, è ciò che le nostre bocche hanno involontariamente vomitato al suo cospetto.
Com’è possibile che un solo uomo sia riuscito a far passare per inadeguati centinaia di offensive lineman che, militando in NFL, dovrebbero essere i migliori al mondo nel proprio lavoro?
Com’è possibile che un defensive tackle sottodimensionato - per gli assurdi canoni della NFL, non della vita reale - abbia costretto gli offensive coordinator avversari al raddoppio sistematico? Se non addirittura a triplicarlo?
Com’è possibile che un defensive tackle abbia sfondato il muro dei 20 sack a stagione - in un campionato ancora da 16 partite?
La risposta non può che essere un candido e strafottente “non ne ho idea”.
Aaron Donald, care lettrici e cari lettori, è un giocatore che non vi so spiegare. Posso provare a trasmettervi la sua grandezza sciorinando numeri e traguardi individuali, ma gli starei comunque facendo un disservizio.
Pro Bowler ogni singolo anno della sua carriera, otto volte First Team All-Pro, tre volte MVP difensivo, nella squadra del decennio degli anni ‘10 del ventunesimo secolo e, soprattutto, campione del mondo nel 2022 quando costrinse i Bengals a rimandare a data da destinarsi l’appuntamento con il loro primo Lombardi chiudendo personalmente i conti con una pressione su Joe Burrow su quarto down.
Non aveva più nulla da dimostrarci, non aveva più nulla per cui giocare: a questo punto che differenza fa un First Team All-Pro?
Ah sì, non è stato inserito nel First Team All-Pro solamente al termine della stagione da rookie e nel 2022 a causa di un infortunio.
Forse per restituirvi parte della sua grandezza posso focalizzarmi su chi ha avuto la fortuna di giocarci assieme.
Per anni, infatti, è esistito l’effimero ma fin troppo reale “effetto Donald” che ha permesso a chi gli stava accanto di vivere la miglior stagione della carriera: per maggiori informazioni rivolgetevi a Dante Fowler Jr. o Leonard Floyd, ex scelte al primo round riabilitate dalla semplice presenza di Donald.
Ma in cosa consiste questo “effetto Donald”?
Come già accennato, l’imbarazzante facilità con la quale arrivava a mettere le mani addosso ai quarterback avversari ha costretto le linee d’attacco avversarie a focalizzarsi (quasi) unicamente su di lui raddoppiandolo o, in alcuni casi, addirittura triplicandolo regalando così ai pass rusher continui uno-contro-uno con i tackle: se sei un offensive coordinator puoi sopravvivere all’idea di due sack di Leonard Floyd. Un po’ meno a quella di Donald che tritura il tuo quarterback snap dopo snap.
La sua semplice presenza generava un effetto a cascata che rendeva più semplice la vita a chiunque gli stesse attorno: con due offensive lineman sistematicamente francobollati a Donald, i compagni di reparto hanno goduto di una libertà che spesso poteva essere confusa con ingenuità tattica avversaria.
Non lo era.
Sack dopo sack, è riuscito nella missione impossibile di rendere sexy uno dei ruoli più infami del gioco, quello del defensive tackle, bastardo senza gloria la cui mansione per anni è stata “semplicemente” quella di occupare spazio - e uomini della linea d’attacco - per permettere ai compagni di attaccare i gap e mettere le mani addosso al portatore di palla.
La posizione è diventata così sexy che, Kirk Cousins a parte, i contratti più onerosi della giovane offseason sono tutti stati firmati da defensive lineman come Chris Jones, Justin Madubuike e Christian Wilkins.
In mezzo a questi troviamo quello di Robert Hunt, una guardia, o se preferite l’antidoto a tutti gli Aaron Donald di questo mondo.
Il suo impatto è stato così profondo che si manifesta anche nei contratti firmati dai pari ruolo: sono pochi i giocatori che possono vantare qualcosa di simile.
La singola cosa più soddisfacente è che tutto questo dominio non sia stato permesso da superpoteri o dalla genetica, ma da un’etica del lavoro maniacale.
Aaron Donald non è stato assemblato in laboratorio, ma in palestra.
Figuratevi che quando nell’offseason del 2021 un uomo lo accusò di aggressione la preoccupazione di Donald non fu tanto quella di smentire le accuse per proteggere la propria reputazione, ma esclusivamente per allenarsi.
«Ti ho assunto per risolvere questa storia alla svelta perché non ho fatto niente. Non sono disposto a pagare nulla a nessuno. Possiamo andare al commissariato insieme e raccontare la storia. Procurati il video, procurati i testimoni, non ho fatto niente. Voglio solo andare in palestra e non avere nessuno che mi faccia domande a riguardo perché non è successo niente.»
Furono queste le prime parole da lui rivolte al suo avvocato, «voglio solo andare in palestra»: fa sorridere pensare che una decina di mesi dopo alzò al cielo il tanto agognato Lombardi.
Le accuse caddero velocemente, giusto il tempo di consegnare i video delle telecamere di sicurezza alle autorità, anche se chiunque dentro di sé era consapevole che se Donald avesse veramente messo le mani addosso a qualcuno quel qualcuno non sarebbe vissuto abbastanza a lungo da poterlo raccontare.
La palestra sopra a tutto pure in quello che si sarebbe potuto trasformare in incubo.
Stiamo pur sempre parlando del giocatore che per allenare i riflessi e contromosse con le mani utilizzava coltelli. Finti. Per fortuna.
Il suo successo non è stato figlio del caso, ma di un lavoro meticoloso, ossessivo e disumano: Aaron Donald è diventato Aaron Donald esclusivamente grazie ad Aaron Donald.
E anche per questo si è meritato la patetica - nel senso di “piena di pathos” -adorazione con cui abbiamo parlato di lui negli ultimi anni.
Da giocatore feticcio degli analisti di Pro Football Focus Donald si è elevato a icona, un trend setter che ha mutato per sempre la concezione di una posizione da cui adesso ci aspettiamo numeri di sack e pressioni che dovrebbero competere ai pass rusher sull’esterno.
È esclusivamente grazie alla sua consistenza se siamo diventati immuni a stagioni da doppia cifra di sack da parte dei defensive tackle: ripeto, numeri del genere non sono normali sotto nessun punto di vista.
Sono genuinamente contento per lui.
Per quanto abbia potuto amare e rispettare il gioco, condurre uno stile di vita del genere deve essere più che logorante: che senso ha guadagnare tutti quei soldi se poi si trascorre la vita in palestra a sollevare pesi e ad affinare le proprie mosse di pass rush?
Anche da un punto di vista mentale deve essere estremamente complicato mantenere un equilibrio funzionale quando anno dopo anno si è chiamati a superare uno standard insostenibile per chiunque: ha quattro figli, immagino che sarà ben lieto di fare la panca piana con loro sul divano piuttosto che con pesi schifosamente pesanti.
E quindi, arrivati a questo punto, non ci resta che ringraziarlo.
Grazie Aaron, grazie per averci tolto le parole di bocca, grazie per averci fatto provare settimanalmente sensazioni che col football americano non hanno nulla da spartire. Avete presente l’inesplicabile meraviglia con la quale vivete un fenomeno atmosferico, un tramonto particolarmente bello o una vista così incontaminata che commentarla a parole produrrebbe solo inquinamento acustico?
Ecco, io gli sono grato principalmente per questo, per l’imbarazzante incapacità di spiegarne la grandezza in un’epoca in cui ci stiamo ostinando a cercare modi di quantificarla. Aaron Donald non lo spieghi con metriche di PFF o sbirciandone la produzione, Aaron Donald lo comprendi solo vivendolo.
Sfortunatamente sono ancora nelle fasi iniziali del mio percorso su questo pianeta e, avendo solo 28 anni, di giocatori storici me ne sono persi decisamente troppi, ma in questo caso mi considero un vero privilegiato ad averlo vissuto in tempo reale, domenica dopo domenica.
Sack dopo sack.
“Wow” dopo “wow”.