Jason Kelce non ha precedenti nella storia NFL
Un omaggio a un uomo - e giocatore - unico nel suo genere
Mike Webster. Dermontti Dawson. Jim Otto. Kevin Mawae. Ora pure Jason Kelce.
Se vogliamo parlare di Jason Kelce il giocatore di football e trovargli un posto nell’ultracentenaria storia della NFL sono quelli appena citati i nomi a cui dobbiamo accostarlo.
Jason Kelce è stato uno dei migliori centri di tutti i tempi e direi che i sei First Team All-Pro abbinati ai sette Pro Bowl riescano - stranamente - a compendiarne la grandezza. Avesse interpretato una posizione leggermente più sexy avremmo sbrodolato per anni sul fatto che ben 190 giocatori furono chiamati prima di lui durante il draft del 2011.
Fosse stato un ricevitore o un pass rusher gli avremmo riservato il trattamento Brady, rimarcando a ogni piè sospinto il numero oltraggiosamente alto di giocatori selezionati prima di un futuro Hall of Famer.
Per nostra fortuna, però, trattandosi di un centro non ci siamo mai presi la briga di riassumere la sua storia personale ogni volta che menzionavamo il suo nome.
Per più di un decennio Kelce è stato lo standard nella posizione più sottovalutata - e data per scontata - del gioco che tanto amiamo.
“Sottodimensionato” ma ciò nonostante terribilmente fisico, si è guadagnato un posto nella Hall of Fame principalmente grazie a un’intelligenza tecnica che ha costantemente semplificato la vita di chi gli stava attorno e, soprattutto, a un’agilità insensata per un essere umano di quelle dimensioni.
Pochi giocatori arrivavano al secondo livello più velocemente di lui. Se un giocatore così intelligente ha i mezzi atletici per concretizzare quanto processato dal suo cervello, quel giocatore diventa inarrestabile.
Kelce era sempre al posto giusto perché sempre - almeno - un paio di passi avanti rispetto agli avversari. Poi, grazie ai fortunati geni della famiglia Kelce, arrivava nel suddetto posto in tempi incomprensibilmente irrisori.
Non è sicuramente un caso che gli Eagles siano riusciti ad arrivare alla terra promessa seppur guidati dal backup quarterback: con Kelce a tenere unito l’attacco Philadelphia riuscì a sopravvivere all’assenza di Carson Wentz senza alcun problema.
Dal 2011 il vero quarterback dei Philadelphia Eagles è stato proprio lui.
Ma basta col giocatore, immagino che di analisi tecniche sulla storica grandezza del numero 62 degli Eagles possiate trovarne a bizzeffe sull’Internet - e probabilmente ben più approfondite e competenti delle mie.
Ciò che a mio avviso ha reso Jason Kelce uno degli individui più notevoli nella storia della NFL è la sua svergognata genuinità.
Mettiamo subito in chiaro una cosa.
Negli ultimi mesi il cognome Kelce è diventato a tutti gli effetti un brand e c’è chi, più o meno maliziosamente, potrebbe pensare che scene come quella di Buffalo altro non fossero che stucchevoli stunt pubblicitari per aumentare la pervasività del brand-cognome.
Un simile ragionamento lo posso comprendere senza particolari difficoltà, tuttavia sarebbe profondamente errato. L’orso che sbeffeggia le temperature polari di Buffalo battendosi il petto nudo mentre arpiona una birra non è volgare product placement, è semplicemente Jason Kelce.
Posso giurarvi sulla mia gatta che non avesse preparato mezza parola del celebre discorso alla parata del Super Bowl - che si è elevato a tratto caratterizzante della sua persona. In sei minuti di urli, volgarità e tanti nomi di compagni di squadra, Jason Kelce si è elevato a persona ben più interessante di un centro All-Pro qualunque.
Jason Kelce è questo, il punto di incontro fra il bomber-pastore che ha monopolizzato i social network e una delle persone più introspettive che possiate incontrare in un mondo asettico come quello della NFL, un mondo dove si è incentivati a dire il meno possibile… parlando il più possibile.
Dovessi mettermi a elencare gli episodi che lo hanno reso uno dei soggetti più interessanti e tridimensionali della lega non sono sicuro sarei in grado di finire prima dell’inizio dei prossimi playoff: mi limiterò a raccontarne uno che a mio avviso ci restituisce Jason Kelce per quello che è, un ottimo essere umano, il compagno di squadra ideale e una persona che ci si può ritenere fortunati a definire amico.
Durante il draft del 2022, il GM Howie Roseman utilizzò la 51esima scelta per mettere le mani sull’erede di Kelce, Cam Jurgens da Nebraska.
Durante lo stesso draft, i Tennessee Titans fermarono il doloroso scivolone di Malik Willis selezionandolo verso la fine del terzo round con la speranza di aver individuato il successore di Ryan Tannehill.
La stampa locale, maliziosa e bramosa di titoli, chiese all’ex quarterback di Miami pareri sull’eventuale ruolo di mentore a Willis: molto seccamente Tannehill ribatté che prendere sotto la propria ala il rookie non facesse parte del suo lavoro.
“The way you make a lasting impact as a player, as a person is how you influence other people and hopefully help others realize their dreams […] I think that’s a big part of being a veteran player. Something you realize more and more as you get older, what’s going to happen when you’re done and what are you leaving behind you? You don’t want to just leave statistics and cool highlight blocks”
Quella che vedete in corsivo fu la risposta di Jason Kelce alla stessa identica domanda: aiutare il prossimo a realizzare il proprio sogno. Lasciare ai posteri qualcosa di ben più nobile che blocchi e statistiche.
Fare da mentore a Jurgens per lui non è stato un peso o un favore all’unica franchigia per cui ha giocato, ma parte del suo lavoro di essere umano, non di giocatore.
Jason Kelce è anche questo. Altruismo, generosità e un raro affetto incontaminato dalle fameliche logiche NFL in cui spesso il tuo più grande nemico veste i tuoi stessi colori.
Quando a un certo punto della scorsa primavera decise di concedere agli Eagles un ultimo ballo, Kelce si scusò immediatamente con Jurgens per non essersi ritirato e avergli rubato quello che sarebbe dovuto essere il suo momento.
Per lui l’unica prima persona che conta è quella plurale, sia dentro che fuori dal campo.
Ma ciò che più ho amato di Jason Kelce è la sua predisposizione alla lacrima.
Viviamo in un mondo in cui un cromosoma Y implica - sulla carta - il totale e saldo controllo delle proprie emozioni: per un maschio che si rispetti l’eccessiva emotività non è una risorsa, ma una deformazione da correggere il prima possibile.
Un maschio, molto semplicemente, non piange. Un maschio, se maschio, non parla apertamente delle proprie emozioni ma le reprime e comprime fino a portarle all’implosione.
Figuratevi un maschio che gioca in NFL, il monte Olimpo della mascolinità tossica, quel luogo incantato dove un infortunio debilitante per qualsiasi essere umano spesso non è in grado di tenere lontano dal campo un giocatore.
Nell’ultimo anno l’ho visto più volte asciugarsi le lacrime che condurre la carica del Brotherly Shove. Eppure gli Eagles hanno fatto ricorso a questa giocata così insistentemente da portare la lega a pensare di vietarla.
La stessa persona che esalta i bomber-pastori battendosi il petto villoso per festeggiare il touchdown del fratello minore non ha mai avuto problemi a mostrare le proprie emozioni. L’esatto contrario.
Durante la conferenza stampa in cui ha annunciato il proprio ritiro non gli è servito nemmeno un minuto per iniziare a singhiozzare.
In quanto maschio con l’hobby del lamento sfrenato è forse questa la singola cosa per cui gli sono più grato, aver ribadito che chiunque possa parlare apertamente delle proprie emozioni - talvolta mostrandole -, anche uno che ha guadagnato milioni di dollari malmenando energumeni di 140 chilogrammi.
È stato rinfrancante essere esposti a questa sorprendente genuinità in una lega di androidi che, se messi davanti a un microfono, iniziano inspiegabilmente a ringraziare Dio - o chi per lui - e a spammare frasi sull’importanza dei compagni di squadra et cetera et cetera.
Possiamo dire tutto di lui, ma non sicuramente che non fosse a proprio agio con sé stesso. Non gliene è mai importato nulla di passare per melenso, ridicolo o innaturale, oltre alla caratteristica barba ha sempre sfoggiato senza alcuna vergogna ciò che sentiva dentro: a volte sotto forma di lacrime, altre volte sotto forma di promo da wrestler WWE.
Grazie di cuore Jason.
Grazie per averci dato l’opportunità di commentare le imprese di uno dei giocatori più affidabili e concreti di questa generazione.
Grazie per averci regalato momenti tanto assurdi quanto indimenticabili non dimenticandoti di essere mai te stesso.
Grazie, soprattutto, per averci dimostrato che pure in un mondo patinato e artificioso come quello della NFL una persona possa elevarsi a eroe popolare limitandosi a essere sempre e comunque sé stessa.
Anche se con qualche lacrima in più del previsto.
Grande Jason! In tutti i sensi.....
Grazie Mattia, per aver messo in luce il suo lato umano, d'altronde quello sportivo parla da se.....😄