Considerazioni su Aaron Rodgers agli Steelers
Dopo mesi di riflessione, ritiri spirituali e interviste Aaron Rodgers ha finalmente detto sì ai Pittsburgh Steelers
Nell’eccitazione con la quale sono andato a posporre la seconda parte della mia Top100 - programmata per questa mattina - troviamo incapsulata l’insopportabile monotonia di questa offseason: accogliere come fulmine a ciel sereno un matrimonio così annunciato che ci sembra di aver già preso parte al ricevimento è indubbiamente tenero - se solo non fosse così triste.
Nell’alienante passività di un anonimo giovedì sera (quasi) estivo è arrivato il cinguettio che stavamo aspettando da marzo, quello che finalmente suggella l’unione fra Aaron Rodgers e i Pittsburgh Steelers.
Mi trovo quasi in imbarazzo a commentare un qualcosa di cui ho già parlato ad nauseam negli ultimi mesi e che credo di aver analizzato da ogni possibile angolo.
Quello di cui siamo stati testimoni quest’anno è stato uno dei caroselli dei quarterback più sterili e prevedibili di cui io abbia memoria, figuratevi che a salvarlo ci hanno dovuto pensare i Seattle Seahawks spedendo Geno Smith a Las Vegas per poi andare a mettersi nelle mani del redivivo Sam Darnold: esaltante, no?
Wilson ai Giants, Fields ai Jets e Jones ai Colts - movimento un po’ più intrigante a seguito della nuova ricaduta di Anthony Richardson - hanno valorosamente provato a intrattenerci, ma niente da fare, noi tutti attendavamo con stizzita impazienza la decision di Aaron Rodgers, naturalmente associato agli Steelers.
Dal ritiro di Ben Roethlisberger al termine della stagione 2021, la situazione under center a Pittsburgh è consistentemente stata le più drammatiche in assoluto.
Con Kenny Pickett hanno preso un granchio. Con Mitch Trubisky le aspettative non erano poi così alte ma lui, in qualche modo, è riuscito comunque a deluderle. L’alternanza fra Justin Fields e Russell Wilson era partita sotto i migliori auspici salvo poi collassare a suon di sconfitte dicembrine culminate nell’ennesimo one and done ai playoff, una batosta sotto ogni punto di vista inflitta dalla nemesi di Baltimore che li ha costretti ancora una volta ad approcciarsi all’offseason senza un piano per il presente nella posizione più importante del gioco.
Figuriamoci per il futuro.
Associare Rodgers a Pittsburgh non ha mai richiesto chissà quanta fantasia.
Le linee temporali delle due entità sembrano coincidere, in quanto da una parte troviamo un quarterback coi giorni in NFL contati desideroso di redimersi dopo la tragicomica parentesi a New York, dall’altro una squadra costretta a una relativa mediocrità - principalmente a causa dell’assenza di un quarterback degno di nome - che vorrebbe spremere una cavalcata seria ai playoff da un ciclo tecnico che se non è prossimo alla conclusione appare sempre più stanco.
Fra tutte le opzioni disponibili Pittsburgh appariva fin da subito come la più sensata per l’ex paladino dei Green Bay Packers. La qualità del roster è buona e la struttura societaria infinitamente più solida di quella - inesistente - dei melodrammatici New York Jets: possiamo dire quello che vogliamo degli Steelers, ma se non altro qui le gerarchie esistono e vengono rispettate.
A bocce ferme mi sento di affermare che a differenza di quanto successo a New York nell’ultimo biennio Rodgers dovrà solamente preoccuparsi di essere il miglior quarterback possibile, non un de facto general manager con potere decisionale trasversale che gli permette di piazzare in panchina i propri uomini - Nathaniel Hackett - dopo aver regalato un lavoro agli amici del cuore nel reparto di competenza - Randall Cobb, Allen Lazard, Tim Boyle, Billy Turner e infine Davante Adams.
A Pittsburgh Rodgers verrà calato all’interno di un’infrastruttura decisamente più funzionale rispetto a quella di New York e, malgrado questa non costituisca in alcun modo un’impresa da celebrare, è sicuramente un buon inizio.
Poco tempo fa Pittsburgh è andata a prendersi D.K. Metcalf e voci di corridoio sempre più insistenti parlano di loro come di una squadra attivamente alla ricerca di ulteriori playmaker con cui andare a rimpinguare un reparto offensivo che, Metcalf a parte, non è poi così profondo.
Opererà sotto la guida di Mike Tomlin, uno degli allenatori più rispettati e amati in assoluto e a quanto pare Rodgers è genuinamente contento di avere l’opportunità di lavorarci insieme.
Con alle spalle una difesa storicamente opportunista e un kicker capace di vincere partite da solo le possibilità di redenzione sono davvero alte.
Insomma, è fuori questione che dal punto di vista di Rodgers questa unione abbia tutto il senso del mondo dal momento che Pittsburgh può dargli quello che desidera, ossia un’opportunità di congedarsi dalla NFL alle sue condizioni - leggasi “non dopo un disastroso 5-12 che è quasi riuscito a far passare i New York Jets come metà sana e funzionale di un disastro annunciato di coppia”.
A dicembre compirà 42 anni e dal momento che ha contemplato più volte il ritiro a voce alta sorge spontaneo pensare al 2025 come al suo ultimo anno in National Football League: una stagione conclusa con un record decente, un paio di statistiche gradevoli alla vista et voilà, l’opinione pubblica come per magia si dimenticherà del disastro newyorkese e lui potrà ritirarsi a vita “privata” a testa tutto sommato alta.
In questi paragrafi ho provato a convincervi del fatto che gli Steelers costituissero il miglior scenario possibile per Rodgers: nei prossimi, invece, tenterò di farvi convenire che non si possa dire altrettanto per Pittsburgh.
Ovvie battute a parte, nell’ultimo lustro Rodgers si è trasformato in una delle entità più tossiche dell’universo NFL. L’infinito tira e molla col front office di Green Bay, gli inganni vaccinali, le bordate a general manager e dirigenza, i deliranti interventi televisivi e, dulcis in fundo, l’umiliante disastro di New York lo hanno trasformato in una sorta di re Mida al contrario, una figura mitologica capace di tramutare in diarrea qualsiasi cosa abbia la sfortuna di capitargli fra le mani.
Poco fa vi parlavo di una struttura societaria solida con dei ruoli ben definiti e un allenatore/santone oramai diventato sinonimo sia della squadra che della città: figuratevi che al momento nessun allenatore nelle quattro leghe sportive americane può vantare una permanenza nella stessa squadra più lunga di quella di Mike Tomlin ai Pittsburgh Steelers.
Questa solidità, però, sta cominciando a scricchiolare e negli ultimi mesi ho cominciato a percepire una certa esasperazione di una fanbase sfinita dall’aurea mediocrità garantita da Tomlin: i loro campionati stanno diventando insopportabilmente prevedibili e gli esiti inevitabili.
Per carità, la serie di stagioni consecutive concluse con un record non-negativo è a suo modo impressionante, ma sempre più tifosi sono diventati insofferenti a questa statistica che non trova modo di tradursi in successo a gennaio: l’ultima vittoria ai playoff degli Steelers risale al 15 gennaio 2017.
Da quel momento sono arrivate sei sconfitte consecutive, tra le quali spuntano quelle patite per mano di Blake Bortles e Baker Mayfield e le autentiche umiliazioni inflitte da Patriots, Chiefs, Bills e Ravens.
Tutto questo malgrado un reparto difensivo che da settembre a fine dicembre è spesso stato in stato in grado di vincere nonostante l’attacco, non con l’attacco.
A primo acchito l’aggiunta di Aaron Rodgers sembra solamente perpetrare questa condizione di aurea mediocrità che concretamente potrebbe tradursi nell’ennesima stagione da 9-10 vittorie e l’immancabile eliminazione al primo round dei playoff.
Stando a quanto visto lo scorso anno a New York, faccio fatica a vedere Rodgers come indiscutibile miglioramento rispetto all’alternanza Fields/Wilson che, ricordiamolo, li aveva fatti arrivare a metà dicembre sul 10-3 e con la division in pugno.
La parte più depressa del mio essere è terrorizzata da questo binomio - probabilmente a causa di un nome che rima ancora con storica efficienza e quattro MVP -, ma con un po’ di razionalità e realismo non fatico a squarciare il velo di Maya e trovarmi faccia a faccia con l’ennesima stagione da 9-10 vitt… avete capito.
Con questa firma Pittsburgh sembra condannarsi con le proprie mani all’ennesima stagione come le altre, all’ennesima pallina sopra il 50% di vittorie da aggiungere al personalissimo abaco di Mike Tomlin di cui, stando a quanto percepisco leggendo i tifosi, non importa più nulla a nessuno.
Per il principio del chi vivrà vedrà con un quarterback esperto come Rodgers Pittsburgh potrebbe finalmente riuscire a vincere una partita ai playoff… e poi?
La situazione degli Steelers non può in alcun modo essere comparata a quella di Buccaneers e Rams quando sono andate a prendersi Brady e Stafford, due quarterback da calare all’interno di squadre che erano davvero pronte a vincere… o meglio, a un quarterback di distanza dalla possibilità di competere per il Super Bowl.
Pittsburgh arrivata a questo punto avrebbe disperatamente bisogno di un campionato terribile da 4-massimo-5 vittorie che le dia l’opportunità di cercare la risposta under center al draft, esattamente come fatto una ventina d’anni fa quando con l’undicesima scelta assoluta si assicurarono quel Ben Roethlisberger con cui alzarono al cielo due Lombardi.
Ritengo necessario e a suo modo logico un radicale cambio d’approccio che non li costringa a navigare a vista anno dopo anno: a Pittsburgh non esiste un progetto tecnico, si vive alla giornata cercando soluzioni tampone nell’unica posizione del gioco nella quale è imprescindibile averne uno.
Per l’ennesima volta il front office degli Steelers ha chiuso l’occhio che guarda verso il futuro dando massima priorità a un presente non poi così competitivo condannandosi così ancora una volta a rovistare nel cesto delle offerte dell’offseason a caccia di un quarterback.
Con la tutt’altro che inconcepibile eventualità che la tossicità di Rodgers non spinga all’implosione l’ennesimo spogliatoio.
Re Mida al contrario... GENIALE!!!
Da tifoso Ravens non posso che godere della scelta fatta